Enter your keyword

Mappe affettive e corpi biomediati nel gioco elettronico tridimensionale del mondo anglofono

I videogame oggi non sono soltanto, come afferma Henry Jenkins (“Art for the Digital Age”, 2000), una forma estetica degna di nota, ma una forma culturale dominante che, anche secondo James Newman (Videogames, 2004), esige attenta e adeguata considerazione. Innanzitutto, per le dimensioni fenomenali dell’industria del videogioco nei suoi intrecci tra mondo tecnologico e finanziario – per i quali Nick Dyer- Witherford, citato da De Riso nella sua introduzione, parla addirittura di un nuovo Impero; poi per l’enorme popolarità dei videogame, non solo tra i ragazzi ma anche tra gli adulti, che l’autore descrive come la “diffusa capillarità di questa forma espressiva, trasversale come nessuna” (11); infine, per l’esempio sofisticato che forniscono dell’interazione tra uomo e computer nella nuova ecologia mediatica.

Il presente volume risponde efficacemente all’esigenza di un ampliamento e approfondimento dell’interesse accademico nel campo dei videogame fornendo un contributo di grande densità e ricchezza scientifica che spazia in maniera fruttuosamente interdisciplinare tra lo specifico del videogioco e i paradigmi teorici della filosofia e della psicanalisi, degli studi femministi sul cinema e dei postcolonial studies, dei cultural studies e dei performance studies, soprattutto in relazione alla teoria degli affetti. Il lavoro mostra una tale ampiezza di orizzonti che il titolo appare riduttivo quanto ai contenuti effettivi del testo che, non prescindendo da un’accurata disamina della grammatica e delle forme di ricezione del videogioco, si configura piuttosto come uno studio di solida e documentata critica culturale. I videogame analizzati da De Riso, rispondenti a differenti tipologie formali e tematiche, appaiono di fatto convincentemente degni di nota perché offrono preziosi spunti di riflessione che aiutano a comprendere meglio la cultura e la società contemporanea come luogo di “controllo e articolazione del sé” (12), specialmente in relazione alla perpetuazione o allo scardinamento degli stereotipi di genere e di razza, e perché possono esemplificare, grazie alle loro dinamiche procedurali, tanto il modo in cui la tecnologia digitale ha alterato la nostra percezione dello spazio e del tempo quanto quello in cui l’identità individuale, impossibile da inquadrare in qualcosa di fisso ed essenziale, si riveli piuttosto azione e processo in continua evoluzione.

All’interno di un campo di indagine ancora piuttosto snello e ancora dominato essenzialmente da approcci che interpretano il videogioco come un terreno di applicazione di linguaggi preesistenti, in particolare quello della narrativa (ad esempio nel lavoro seminale di Janet Murray, Hamlet on the Holodeck, 1997 o in quello più recente di Marie-Laure Ryan, Avatars of Story, 2006) e quello del teatro (a cominciare dal volume di Brenda Laurel, Computers as Theatre, 1991), il lavoro di De Riso esplora il campo da una prospettiva più specifica e nuova, raccogliendo forse il suggerimento di un esperto di videogame come Gonzalo Frasca in merito alla necessità di andare oltre il paradigma narratologico e di vedere soprattutto nella performance corporea o ‘corporeizzata’ del giocatore – che Frasca chiama con un gioco di parole “Playformance” (Play the Message, 2007) – la produzione dei significati più interessanti di un videogioco.

Come sottolinea con convinzione De Riso nel primo capitolo, di impianto prettamente teorico, la performance del giocatore di videogame non è solo cognitiva ma anche e soprattutto sensoria, affettiva, e attraverso di essa il giocatore, con il suo corpo, non solo manipola interattivamente l’ambiente virtuale in cui si muove, ma lo percepisce e interpreta attraverso l’uso, producendo significati che possono essere tanto rispondenti quanto resistenti a quelli inscritti nel gioco. Questo nuovo paradigma teorico, che scardina il secolare modello oculocentrico del pensiero occidentale facendo leva sulla teoria fenomenologica di Maurice Merleau-Ponty e quella degli affetti di Brian Massumi, guarda ai videogiochi come al luogo privilegiato di applicazione di una conoscenza non eminentemente visiva, ma multisensoriale, aptica e cinestetica. Grazie ad essa il corpo del giocatore, che l’autore definisce ‘biomediato’, entra in una relazione ‘affettiva’ e trasformativa, più che semplicemente interattiva, tanto con il testo e le immagini prodotte dalla macchina quanto con la macchina stessa. Il giocatore di videogame, si potrebbe aggiungere, si trova nelle stesse condizioni del cieco Gloucester quando afferma di poter vedere “feelingly” (King Lear, IV, iv, 147).

Tra i più interessanti casi di osservazione, De Riso propone nel terzo capitolo quello di alcuni giochi di simulazione bellica del tipo FPS (first-person-shooter) creati con la collaborazione del Dipartimento della Difesa americano e per lo più usati per l’addestramento delle reclute, se non come forma di propaganda contro il ‘nemico assoluto arabo’. Qui l’interfaccia estrinseca la sua qualità aptica nel sintetizzare impressioni visive, uditive e tattili negative – come macchie di sangue, grida, offuscamenti – tali da provocare nel giocatore sensazioni molto sgradevoli e uno stato che Massumi definisce di “intensive readiness” (86). Il giocatore è cioè indotto a un’immediata e automatica azione riparatrice, a un movimento riflesso, rapido e risolutivo, che consiste essenzialmente nell’eliminazione dell’‘altro’, causa evidente delle orribili sensazioni che egli prova ‘sulla sua pelle’. Il territorio arabo, ostile e irto di ostacoli, che il giocatore attraversa non è più quindi una semplice ‘tela’ rappresentativa, ma un “tessuto vivente capace […] di caricarsi delle sensazioni, lasciarsi attraversare dalle intensità, farsi saturo degli affetti che investono e circolano per un corpo” (86-87). E’ una ‘mappa affettiva’ all’interno della quale il giocatore è indotto a reagire sotto l’impulso di puri stimoli percettivi. E questo, come sottolinea giustamente De Riso, lungi dall’essere uno di quei casi in cui le potenzialità del videogame aumentano l’agenzialità del giocatore, è piuttosto la chiara, cruciale dimostrazione di come questa forma culturale avanzante possa, condizionando i ‘comportamenti’ del corpo, anche diventare un potente strumento ideologico di controllo individuale e sociale, oltre che di reiterazione e consolidamento degli stereotipi neo-imperialisti. E, tuttavia, le ‘geografie immaginarie’ di saidiana memoria, cui De Riso fa ricorso per mettere in mostra la logica deviata di queste territorializzazioni ‘affettive’, possono essere anche scardinate, in particolare se si guarda al modo in cui alcuni videogiochi prodotti in Medio Oriente in funzione anti-israeliana si ‘appropriano’ degli stessi motori grafici dei giochi americani per costruire delle contronarrazioni, e “per ‘disturbare’ lo sguardo del dominatore sfruttando le percezioni profonde veicolate dalla visione in prima persona” (98). Di fatto, è quando questi giochi vengono giocati da americani o comunque da occidentali, abituati di solito a stare dall’altra parte della barricata, che vengono prodotti i significati più fertili, perché il giocatore, trovandosi improvvisamente nei panni dell’altro – guardando il mondo con i suoi occhi – e incarnando la sua fantasia di occupare il posto del dominatore, prova una perturbante sensazione di ambivalenza, così da realizzare quella che per Homi Bhabha è la condizione di abitazione del terzo spazio: quella condizione ibrida in cui i confini tra soggetto e oggetto vengono a sfumarsi così come “ogni rivendicazione essenzialista inerente a questioni di autenticità o purezza delle culture” (111).

Lo spostamento o la moltiplicazione delle prospettive in campo è tanto più apprezzabile nell’ultimo caso preso in considerazione da De Riso e al quale è dedicato l’ultimo capitolo del volume. Il caso analizzato è quello di Portal (2007), un gioco che sembra decisamente complicare se non impedire la riproduzione delle asimmetrie di genere e dell’immaginario patriarcale dominante quale, invece, ci viene presentato nel secondo capitolo attraverso l’illustrazione delle dinamiche di Ico (2001). Ico è un gioco in cui la performance audio- tattile o aptica serve soltanto a potenziare, con l’‘intensificazione dell’affetto’ che produce, la pratica oculare feticistica che riduce la donna – una bella e delicata ragazza dal linguaggio incomprensibile che il protagonista è impegnato costantemente a proteggere e a salvare da un ambiente ostile – a mero oggetto dello sguardo e del controllo maschile (qui l’autore usa avvedutamente gli strumenti della psicanalisi lacaniana e della critica cinematografica femminista). In Portal, al contrario, la critica cinematografica viene utilizzata per decodificare i tratti innovativi di una rappresentazione virtuale dominata da una voce femminile fuori campo, disincarnata e quindi investita della stessa, quasi magica autorità – oltre che della stessa padronanza della narrazione – che nel cinema è piuttosto assegnata alle voci maschili. Ad essa, per contro, risponde un avatar femminile muto che può muoversi solo grazie al concorso di tutti i sensi e della sua facoltà aptica in un ambiente vago e indeterminato, flessibile e poroso, che sfugge al controllo della sola vista e della segmentazione razionale: uno spazio non-euclideo saturo di ‘affetto’ che, citando Gilles Deleuze, De Riso identifica come uno “spazio qualsiasi”, ovvero “uno spazio di congiunzione virtuale, colto come puro luogo del possibile” (118). Il videogioco si apre, di fatto, a una molteplicità di possibili prospettive soprattutto quando è giocato da un utente maschio (e sembra che esistano dati che confermino che sono soprattutto maschi gli utenti di questo e di altri giochi di questo tipo), perché allora il giocatore si vedrà calato in una condizione che non gli è consona: si vedrà costantemente esposto allo sguardo esterno e incapace di rimandarlo; dominato da una voce autoritaria invisibile, e impossibilitato a rispondervi. Inoltre, non essendoci da subito una chiara identificazione della fonte della voce, che avvolge l’avatar come una ‘coperta sonora’, questa potrebbe anche essere percepita come proveniente dalla sua interiorità, cosicché, riversandosi ed espandendosi dall’oggetto al soggetto e viceversa, procurerà al giocatore un’“esperienza incarnata realmente in-between” tra il suo corpo e la macchina, tra interiorità ed esteriorità, tra categoria maschile e femminile, scardinando ogni facile identificazione di genere. Come giustamente conclude De Riso la sua convincente ricognizione critica: “Il digitale così impiegato esplora la forza politica connessa all’incommensurabilità dell’affetto” fornendo “uno spazio di agenzialità e rappresentazione intersoggettiva” (141) che, aggiungeremmo noi, potrebbe davvero fare del videogame stesso un efficace strumento di critica culturale.