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La malattia come metafora nelle letteratura dell’Occidente

Il punto è nodale. Lo identifica, quasi in un gioco enantiomorfico, il saggio di F. De Cristofaro, e la sua proposta si riverbera sugli altri saggi, sul volume nella sua interezza. Le malattie non sono metafore. E una riga sotto, separata da uno spazio strategico, una affermazione del tutto opposta: le malattie sono metafore (p. 72). Abbracciando questo intervallo indecidibile, Stefano Manferlotti cura una raccolta variegata e complessa per via della sua ampiezza di metodologie, di riferimenti, di ambiti cronologici, in una prospettiva che si apre alle espressioni pluri-discorsive e a sondare il fertile paradosso che, mi pare dichiaratamente, sottende l’intento del volume nel suo complesso.

Chi scrive non trova pensabile la malattia, non ritiene possibile scrivere/parlare per il “corpo” – malato o abitato da “complessità” –, come se la malattia stesse, appunto, in un altrove incorporeo, gestibile come discorso, e basta. Quando è la letteratura a indagare la malattia, poi, il paradosso si fa di certo ulteriormente implacabile, ingestibile, eppure contemporaneamente essenziale. In una mossa che appare inizialmente cronologica, e che però si rivela anche di grande utilità tematica e “fondativa”, il volume si apre con un pregevole saggio di G. Carillo, il quale “spazializza” il male, metafora anch’essa non di poco conto, nella complessa articolazione tra stasis e kinesis di cui tratta Platone nel Cratilo, e che Carillo “insegue” poi nelle elaborazioni teatrali dell’Orestea di Eschilo. Qui, per l’autore, la stasis platonica richiama il suo corrispettivo, diastasis, e – come insegna Freud nel caso del suo ben noto argomentare intorno allo Unheimliche – consente di verificare come il primo lemma possa finire per convergere nel suo opposto, implicando non quiete e benessere (metafore organicistiche applicate alla polis tutta), ma smarrimento, separazione, disgregazione. Nelle Eumenidi, con una violenza e una potenza che lascia tuttora sgomenti, il male prende la forma tragica del leichen, fenomenale “meta-malattia” che Carillo associa, appoggiandosi a Metafisica della peste di Sergio Givone, al Male tout court. Male teatralizzato, pubblico, politico per definizione, lemma ricchissimo che trascende continuamente il corporeo per sfociare nel metaforico, in un percorso altalenante che davvero può fornire una efficace chiave di lettura per tutti gli altri saggi del volume, e, in senso più ampio, per una riflessione sui temi della corporeità e del cosiddetto “complex embodiment” (Siebers).

Il saggio di Michele Stanco sposta la lettura avanti nel tempo e nello spazio, costruendo il suo discorso intorno a The Taming of the Shrew, e ricordando come il complesso, sconcertante percorso di addomesticamento – “taming”, appunto – del corpo femminile della commedia shakespeariana (e di tante altre forme testuali e spettacolari della prima età moderna) funga da “terapia medica”, operi sulla presunta “patologia umorale” delle giovani donne che ne sono protagoniste e che sembrano necessitare di una trasformazione che ne “raddrizzi” i comportamenti, i linguaggi, le omissioni devianti. Per Stanco, tuttavia, nell’articolata costruzione a cornice del testo drammaturgico vanno lette anche le possibilità eversive, trasgressive e di “formazione” non stereotipica che erano disponibili a Shakespeare stesso e al suo pubblico e che conducono questo testo a una inusitata versione di “giustizia poetica”.

Non malattia, forse, ma male, con tutte le varianti di attribuzione che riecheggiano da un campo semantico all’altro: così, Mirella Billi traccia un di-segno ampio del “mal d”amore”, puntando la sua attenzione prima sul discorso intorno alla malinconia della prima età moderna, per poi allargare ulteriormente il campo e “abbracciare” le ossessioni amorose della nostra contemporaneità, o almeno alcune delle loro ri-presentazioni narrative nei romanzi di Patrick McGrath e Ian McEwan. Proprio un altro testo ben noto di McEwan come Saturday è uno dei poli dell’argomentazione di Antonio Bibbò, il quale muove passi informati lungo un asse che parte dal famosissimo saggio di Max Nordau sulla Degenerazione, intesa in chiave individuale e sociale, dell’organismo malato e instabile che è, per quell’autore, l’Europa della fine dell’Ottocento. Bibbò procede poi verso McEwan e Galapagos di Kurt Vonnegut, ricordando come McEwan conduca nei meandri spesso inaffidabili del morbo di Huntington, mimandone le convoluzioni, ma restando accortamente “ancorato” allo sguardo comunque proprietario del neurologo protagonista del romanzo, Perowne. Vonnegut, invece, utilizza i topoi della letteratura distopica e fantastica per pensare alla corporeità umana come sempre eccessiva, errata, eppure impossibile da “sistemare”, votata senza alcuna possibilità all’annullamento, e alla cessione di un primato forse mai esistito.

Lo si diceva dall’inizio: il saggio di de Cristofaro, che affronta autori come Verga, Kiš e Philip Roth, funge da cardine per l’intero impianto del volume. Merito anche di Enciclopedia dei morti di Kiš, che offre una vertiginosa coincidenza dello scritturale con il tumorale, esponendo un sarcoma ossessivamente ri-cercato, dipinto, segno efflorescente della ineluttabilità della oscena “legge del corpo”. Pensando a Roth, de Cristofaro rende esplicito il senso di tanta oscenità, richiamando, come molti altri autori della raccolta, il testo seminale di Susan Sontag, che di cancro come metafora della contemporaneità ha scritto con tanto vigore: declinato in questo senso, esso è un “accidente organico che flagella l’umano… osceno perché… situato fuori della scena; non è rappresentabile per via metaforica; è materia… guasta, nociva, schifosa…” (68).

A Stefano Manferlotti il compito di portare l’attenzione su un testo breve, ma estremamente complesso nella sua poetica litotica, flusso testuale che marca una costante sottrazione di descrizione e di informazione. In Heart of Darkness di Joseph Conrad, Manferlotti cerca e ritrova la malattia del colonizzatore, di un colonialismo insieme invasivo e dolente, votato al decadimento e alla morte e che si circonda, si fonda quasi, su una “putrescenza generale” (87) che non lascia scampo alcuno. Sulla stessa falsariga si muove il saggio di Angela Leonardi, che vede la Londra di Mrs Dalloway di Virginia Woolf come immenso cimitero, abitato da spauriti corpi insani, indeboliti dalla guerra, da malinconie incurabili, spesso, come per la protagonista Clarissa, informi e indecidibili. Gli stessi corpi informi, pericolosamente deliranti che Francesco Marroni segue nella scrittura anche autobiografica di Paul Bowles, per il quale la malattia cancella umanità (in altri testi essa è invece l’evidenza più indiscutibile di una comune appartenenza) e “reduces man to his basic state: a cloaca in which the chemical processes continue” (Bowles, The Sheltering Sky, 186, cit. 129).

Di malattia mentale si occupa Annamaria Lamarra, che cerca con cura – e, ancora una volta, trova – nella scrittura sempre segnatamente autobiografica (nell’accezione teorica più aggiornata, irresolubilmente fittizia anch’essa) di Doris Lessing la traccia mnestica di complicati, irrisolti rapporti con figure materne sempre eccessive, esagerate, ridondanti. Flavia Cavaliere segue la stessa serie di indizi, di “spie”, di tracce di cui è costituito The Hours di Michael Cunningham, famosa e dolorosa geometria tripartita che tiene insieme tempi e dolori paralleli, la Virginia Woolf afflitta da “fits of rages” del 1923, Laura Brown, 1949, Clarissa Vaughan, 2001. Tutte corporeità afflitte da forme cangianti di un male che “’colonizes… and takes partial control’ (Cunnigham, 70) e che, per Lamarra, opera come una “entità nemica e famelica… come una pianta carnivora” (173). Così, al disagio mentale si aggiunge, improrogabile, l’altra malattia che Sontag e molti altri vedono in azione nella tarda modernità, l’AIDS, contagio associato nel testo di Cunnigham e nella argomentazione di Lamarra a una spettacolare, “primordiale” medusa, antica, esotica, terribilmente affascinante, dalle cui spire è forse impossibile salvarsi. Eppure, ricorda Lamarra, il romanzo propone un lieto fine quasi inaspettato, se non insospettabile.

Carlo Pagetti affronta anch’egli un tema complesso e molto rilevante, il morbo di Alzheimer, nella resa narrativa che ne offre Alice Munro in uno dei suoi celebrati racconti. Nell’inesorabile, ancora, elusione del linguaggio, nella disgregazione sistematica, e di sistema, che la malattia comporta e su cui Tony Harrison ha scritto e filmato in maniera “memorabile” in Black Daisies for the Bride, grava forse il peso di essere, o divenire, la nuova frontiera “metaforica” del millennio.

Esemplare ennesimo di efficace cornice, il saggio di Giuseppe Episcopo chiude in una prospettiva marcatamente gendered, trattando di un genere popolare, frequentato, di grande successo commerciale quale lo hospital drama e di come esso, campo amplissimo e dichiaratamente non racchiudibile in un saggio breve, presenti un “male” tutto al maschile, l’impotenza, e i suoi molteplici strascichi metaforici. Per far ciò, Episcopo connette la serialità televisiva del dramma “ospedaliero” a una precedente, ben nota, forma di narrazione seriale, la menippea, “genere espanso” che per Manferlotti, in altra sede, è “già il romanzo”. Il Satyricon di Petronio fa tornare il volume all’interpellazione di una classicità che davvero non sembra avere bisogno di farsi a noi “contemporanea”; l’avventura di Encolpio, Ulisse “disarmato”, si conclude con l’uccisione di una delle aggressive oche consacrate al dio Priapo e, per Episcopo, “mantiene tesa la climax dell’arco narrativo” raccontando molto anche della presenza, o assenza, di questa diversa malattia nelle cornici del classico e del contemporaneo, a raccontare di un corpus patologico, ma spesso sottaciuto, nascosto.

Per concludere, proponendo un viaggio così programmaticamente “disseminato”, il volume si offre quale piattaforma testuale dalla quale godere di panorami spesso non scontati sul tema della corporeità, in una prospettiva storico-culturalista che fornisce il lettore/la lettrice di strumenti molto utili per intraprendere un ulteriore cammino di indagine.