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Cristianesimo ed ebraismo in Joyce

Stefano Manferlotti concludeva la nuova edizione della sua monografia James Joyce (Rubbettino, 2012, 19971) con una serie di considerazioni sull’influenza del nuovo romanzo joyciano sui successivi scrittori, e indicava – come è ovvio si debba fare – due possibili lettori-tipo e – meno ovvio – due editori-tipo: quelli che “si mostrano […] più sensibili alle esigenze di un pubblico appena appena alfabetizzato, condizionato da altri mezzi di comunicazione […] e perciò bisognoso di opere fruibili senza sudore della fronte” per i quali “Joyce ha poco o nulla da dire”; e coloro che credono “pur non facendo del nuovo un feticcio, che a nuovi scenari debbano corrispondere nuovi modelli capaci di rispecchiarli” per i quali Joyce “ha da trasmettere moltissimo” (p.100). Mi piace partire da questa considerazione, che coinvolge lettori e editori insieme, per un breve commento sulla collana “Piccola Biblioteca Joyciana”, che pubblica ora un nuovo volumetto a firma di Stefano Manferlotti, dedicato a Cristianesimo ed ebraismo in Joyce. La collana, diretta da Franca Ruggieri, cerca di ridurre lo iato fra le due categorie, “illustrando” aspetti specifici della produzione joyciana in modo da attirare all’irlandese lettori altrimenti scoraggiati. Lettori che, peraltro, dal gennaio 2011, possono usufruire non solo di nuove riedizioni del testo di Ulysses (quella di Sam Slote è del 2013), ma anche di nuove traduzioni (Terrinoni, Newton Compton 2011 e Celati, Einaudi 2013) che si aprono alla modernizzazione del testo rispetto alla prima storica traduzione di De Angelis del 1960. Siamo ormai – nella collana “Piccola Biblioteca Joyciana” – al n.12 della serie che ha visto la luce nel 2007, inaugurata dal Joyce barocco/Baroque Joyce di Giorgio Melchiori, indimenticato e indimenticabile studioso shakespeariano e joyciano (un binomio spesso sposato dagli anglisti).

L’editore Bulzoni ha al suo attivo una notevole produzione di studi joyciani: non solo monografie fondamentali, e la pubblicazione dei primi dieci volumi di Joyce Studies in Italy (ora giunto al vol. 14 e pubblicato dalle Edizioni Q), ma anche l’attivazione, nel 1986, della “Collana di Studi Joyciani”, di cui “La Piccola Biblioteca Joyciana” è emanazione, pure diretta da Franca Ruggieri, e anch’essa aperta da un volume curato da Giorgio Melchiori, Joyce in Rome, testo epocale per lo studioso joyciano che vi scopriva materiali inediti relativi all’importanza di Roma nella vita e nell’opera di Joyce.

Nella bibliografia di Manferlotti il nome di Joyce compare ripetutamente, e anche il tema di Cristianesimo e ebraismo era già stato affrontato nel volume collettaneo e interdisciplinare Ebraismo e Letteratura (a cura di Manferlotti e Squillante, Napoli 2008). Il saggio di Manferlotti “Cristianesimo ed Ebraismo nell’Ulisse di Joyce”, si apriva sul commento sulla qualità “dramatic” del testo principe del canone joyciano, ricondotta, come del resto tutto il teatro, alla drammatizzazione della liturgia. Nel nuovo volume il focus si allarga a considerare i testi precedenti, Dubliners e A Portrait of the Artist in particolare, e il quadro si completa. Già nella monografia del 1997 Manferlotti aveva evidenziato come il dialogare del duo Leopold Bloom/Stephen riconfigurasse negli stilemi e nella prassi lo schema domanda/risposta della dottrina del catechismo cattolico, e notava come Joyce avesse saputo inglobare nel suo romanzo non solo il mito omerico ma anche il catechismo cattolico. Ora questo agile volumetto totalmente dedicato al confronto/scontro di due civiltà in qualche modo condensa i lavori precedenti, ma lo fa senza sacrificare nulla alla chiarezza – rischio che spesso accompagna la sintesi. Sintesi che, in questo caso, almeno rispetto al lavoro precedente, allarga decisamente lo spettro delle citazioni di brani esemplificativi nel corpo del testo, invece di includerli, come in passato, in fittissime note a pie’ di pagina. Ciò agevola la comprensione anche del lettore che ha meno familiarità con la scrittura joyciana. Alle note, invece, Manferlotti relega punti di “dottrina”, letteraria e non, molto specifici, oltre ovviamente alle irrinunciabili indicazioni bibliografiche. A tale proposito spiace solo che a fine volume non si raccolgano tali indicazioni disperse nelle note in una Bibliografia.

La Premessa e il primo capitolo (“Stephen Dedalus nel quartiere ebraico”) affrontano Dubliners, Stephen Hero e A Portrait. Quello che nella edizione finale è diventato il primo racconto dei Dubliners, “The Sisters”, è letto come il testo generativo dei lati oscuri del cattolicesimo. L’intera raccolta accoglie frequenti accenni a Ebrei, ma per lo più con connotazioni negative, come per l’usura in “Grace”, o la figura della ricca donna ebraica in “A Little Cloud” e “Counterparts”, senza alcun punto di contatto fra cristianesimo e ebraismo. Anche in Stephen Hero e A Portrait i contatti sono minimi e marginali, pur se magistralmente abbozzati, mentre l’unico che compare in A Portrait è di enorme importanza perché coincide con il momento dell’emancipazione sessuale di Stephen nel “quarter of the Jews”.

La parte principale del volume è dedicata a Ulysses (tre capitoli su quattro: “Un apostata e un non credente”, “A messa con Leopold Bloom” e “Orgoglio e pregiudizi”), e in particolare alle due figure dominanti – anche per il tema in oggetto – di Stephen e Bloom, l’uno testimone riottoso della comunità dei cristiani, l’altro laica monade ebraica; entrambi irregolari, l’uno in quanto ebreo e l’altro in quanto apostata e artista. Manferlotti vede il rapporto fra i due come di tipo non univoco, in quanto Bloom è assai più concentrato sul cristianesimo di quanto Stephen non sia sull’ebraismo. Li accomuna però lo stile mock heroic, ironico-parodistico, evidente fin dall’introduzione del neologismo “contransmagnificandjewbangtantiality” (Proteus 1873) che Stephen pronuncia sulla spiaggia di Sandymouth e che per la prima volta intreccia nel testo cattolicesimo, eresia, giudaismo, incastonando il termine jew fra frammenti di Consustanzialità e Transustanzialità, e il Magnificat; ma li accomuna anche l’incontro fantasmatico con il fantasma genitoriale (del padre di Bloom e della madre di Stephen, rappresentativi rispettivamente delle due religioni abbandonate dai figli). Nonostante la sua totale laicità, Bloom è però percepito da tutti i personaggi “come ebreo tout court” (p.27) e tutti si rapportano a lui di conseguenza, facendone l’incarnazione di ogni stereotipo e pregiudizio. Ed è questa parcellizzazione del personaggio, che, “mentre funge da magnete su cui vanno a depositarsi con diversa energia pregiudizi antichi e nuovi e tutta una serie di banalizzazioni” che gli fa perdere, sin dall’inizio, la sua unicità scindendolo “in una serie di polarità e potenzialità narrative che fanno rispettivamente capo ai modi in cui lo percepiscono gli altri personaggi” (p.28). Il “tratto modernista” che Manferlotti identifica in questa pratica di disseminazione di indizi diventa immediatamente comprensibile anche al lettore meno attrezzato alla lettura di questo testo complesso.

Parlare di sintesi a proposito di una lettura del macrotesto joyciano è quasi un ossimoro, ma a mio parere qui Manferlotti riesce nell’impresa di attraversare i testi di Joyce con rapidità e chiarezza, in modo incisivo, con stile elegante, fluido, narrativo. Solo una profonda consuetudine con l’opera intera può consentire un tale risultato.