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Come leggere “Jane Eyre”

La copiosa produzione critica internazionale dedicata a Jane Eyre, insieme ai sempre nuovi adattamenti cinematografici e televisivi, sequels e pastiches, testimonia come l’interesse che il romanzo ha suscitato nei lettori sin dal suo primo apparire, nel 1847, non si sia affato spento e continui a suscitare echi nella cultura popolare del ventunesimo secolo. Basti pensare, limitandosi agli ultimi anni, al recente adattamento della BBC del 2006, seguito dal film (2011) diretto da Cary Fukunaga che, pur non avendo riscosso un grande successo di critica, ha avuto il merito di affidare l’interpretazione di Jane e Rochester a due star hollywoodiane in rapida ascesa come Mia Wasikowska e Michael Fassbender. Fra le testimonianze del fascino che i personaggi brontiani continuano ad esercitare nella cultura di massa, prestandosi alle più diverse e talvolta stravaganti transcodificazioni e re-mediations, si segnala anche l’ironico mashup di Mallory Ortberg intitolato Texts from Jane Eyre: And Other Conversations with Your Favorite Literary Characters (in uscita a novembre 2014) in cui l’autrice promette di svelare ai propri lettori i passionali sms che Rochester avrebbe scritto a Jane (senza dubbio «in all-caps»!). A dispetto dei leciti dubbi nei confronti di questo tipo di iniziative editoriali, certo è che esse dimostrano come il «prodotto» Jane Eyre sia sempre in grado di ispirare autori e attirare l’attenzione dei lettori contemporanei. Ponendosi nella scia di importanti recenti studi sulle sorelle Brontë in generale e su Charlotte in particolare – si pensi a Charlotte Brontë A Passionate Life (1994) di Lyndall Gordon, a The Brontë Myth (2001) di Lucasta Miller, o a The Brontës (2006) di Patricia Ingham – il nuovo saggio di Francesco Marroni, scritto con grande passione e competenza, offre un contributo autorevole ed innovativo ad un dibattito critico in costante sviluppo.

Lo studioso, che già nel 1980 aveva pubblicato l’importante Jane Eyre: struttura e significazione, dopo tanti anni e tanti corsi universitari dedicati al capolavoro di Charlotte Brontë, è tornato a confrontarsi con un testo che rimane sorprendente per la capacità di parlare ai lettori contemporanei, soprattutto grazie all’affascinante complessita psicologica della propria protagonista, e che ha segnato in maniera indelebile la storia del romanzo moderno in generale e della scrittura femminile in particolare. Marroni sottolinea come uno degli aspetti più interessanti del testo sia proprio la sua inesuribile densità simbolica, il potenziale polisemico che ne fa un ‘classico’ a pieno titolo: «dopo ogni percorso di lettura, per quanto coerente e convincente possa essere l’interpretazione, il ricco e stratificato tessuto del romanzo rimane a indicare all’esegeta altre possibilità, altre proposte interpretative» [p. 161].

Il volume si apre con un capitolo dedicato alla ricostruzione del mito brontiano, partendo dal ruolo che nella costruzione di tale mito ebbe la pubblicazione nel 1857 della Life of Charlotte Brontë di Elizabeth Gaskell. Pur essendo indubbiamente un capolavoro nel proprio genere, questa biografia dipingeva un ritratto alquanto tendenzioso di Charlotte, descritta come proper lady moralmente integra, i cui ideali di emancipazione femminile e di chiara insofferenza nei confronti delle strutture patriarcali della società, così evidenti nei suoi romanzi, furono quasi completamente occultati da Gaskell. D’altronde, la figura della donna intellettualmente poco ambiziosa, divenuta scrittrice quasi suo malgrado, è un topos frequente nella biografia letteraria vittoriana. Si pensi, per fare un altro esempio, all’eclatante caso di Jane Austen e al Memoir of Jane Austen che il nipote James Edward Austen-Leigh pubblicò nel 1869, tutto finalizzato ad una rappresentazione della zia come donna disinteressata alla fama, che scriveva nei ritagli di tempo per dilettare amici e nipoti; rappresentazione mistificante ma fortunata che finì per disegnare un ritratto di scrittrice perfettamente conforme agli ideali imposti dalla società vittoriana. La straordinarietà di un personaggio come Charlotte Brontë sta invece anche nelle vicende biografiche del tutto singolari della scrittrice e delle sue altrettanto talentuose sorelle, che, come sottolinea efficacemente Marroni, crebbero in un contesto culturalmente stimolante e inusuale per le donne della loro epoca, e grazie alla figura illuminata del padre, ricevettero un’educazione decisamente poco ortodossa e, per alcuni versi, persino trasgressiva. Le appassionate letture di testi canonici come il Pilgrim’s Progess di Bunyan, il Paradise Lost di Milton o la Doctrine of the Passions di Isaac Watt, si alternavano infatti ad autori assai poco ‘femminili’, come Walter Scott o i poeti romantici, in particolare Byron per cui la famiglia Brontë nutriva una vera e propria venerazione. Proprio le sfrenate letture, unite all’isolamento eccezionale in cui fu relegata, sono stati i fattori determinanti che hanno forgiato la fantasia di Charlotte, già capace di esprimersi in maniera intellettualmente matura nei mondi immaginari delle saghe giovanili di Angria e Glass Town, che molto influenzeranno la sua produzione narrativa successiva. Nel primo capitolo Marroni riesce a dare un quadro sintetico quanto efficace della biografia e della formazione letteraria di Charlotte, nonché della sua parabola di scrittrice, attribuendo un ruolo chiave nel processo di autodefinizione della sua identità di autrice alla lettera che ella scrisse a Robert Southey nel 1833. Il gesto di mandare all’allora Poeta Laureato alcune poesie, accompagnate dall’esplicita dichiarazione di voler diventare autrice, la scoraggiante risposta di Southey e l’altrettanto sdegnata reazione di Charlotte che era già in lotta con la propria ambizione e la necessità di adeguarsi alla rigidità vittoriana, sono molto indicativi del percorso umano e letterario della nostra autrice. Marroni sembra voler sottolineare come la sua vicenda umana e artistica, caratterizzata dal contrasto «fra il fuoco interiore e la fredda veste esteriore» [p. 44], possa essere considerata rappresentativa della complessa realtà storica e culturale del suo tempo, soprattutto per il ruolo sempre più rilevante che le donne scrittrici andavano ritagliandosi con difficoltà. La portata innovativa del romanzo fu d’altronde evidente a lettori e critici sin dal momento della sua pubblicazione, come testimonia la significativa scelta di commenti vittoriani proposta e acutamente chiosata da Marroni. Particolarmente interessanti a mio avviso le osservazioni riportate nel testo dall’autorevole filosofo e critico letterario George Henry Lewes che, evidentmente annebbiato dal proprio maschilismo, appare del tutto incapace di accettare e comprendere la portata innovativa di questa rivoluzionaria voce autoriale femminile.

Nel secondo capitolo lo studioso entra nel vivo della propria analisi del testo brontiano interrogandosi sul perché Jane Eyre sia diventato un classico, e chiedendosi «su quali assi si muova la sua persistenza nel tempo» [p. 70]. Marroni rifiuta ogni proposta di lettura informata ad un rigido disegno teorico, perché convinto che ciò che veramente conta sia «andare oltre le incrostazioni interpretative e cercare di capire come funziona la complessità del testo» [p. 70], senza cedere alla tentazione di «semplificare quello che è complesso» e «linearizzare quello che non è linearizzabile» (questa infatti la critica alla lettura marxista di Terry Eagleton) [p. 68]. La strada scelta è allora quella di far parlare il romanzo stesso, e di accompagnare il lettore in un percorso critico sensibile e competente che aggiorna il binomio di ‘struttura e significazione’ già al centro della monografia del 1980 per svilupparne alcune acquisizioni e proposte ermeneutiche in una chiave più decisamente esistenziale. Lo studioso si concentra infatti sulla maturazione dell’ ‘io esperiente’ (e narrante) nel confronto con gli eventi e con le forze profonde che muovono la sua psiche e danno forma al racconto. Un racconto che drammatizza le «fluttuazioni piscologiche» [p. 98] di un’eroina e di una scrittirce impegnate in un percorso parallelo di costruzione del sé, nel tentativo, forse vano, di governare, attraverso la scrittura e oltre la scrittura, il caotico incalzare delle pulsioni, delle paure e dei desideri, di fare infine emergere dalle contraddizioni laceranti dell’anima l’immagine di un ordine e di un’integrità possibili. Partendo dall’analisi dell’epilogo, caso particolarmente significativo in quanto «risultato di un elaborato processo di negoziazione interiore fra la vera idea brontiana intorno al nesso donna/matrimonio e l’esigenza posta dall’orizzonte dei lettori potenziali» [p. 80], Marroni individua una serie di coordinate simboliche e di Leitmotive che si dipanano per tutto il corso della narrazione. La negazione, la privazione e la solitudine, ad esempio, si affacciano dall’inizio del romanzo e seguono in maniera oscillante Jane, nelle varie fasi della sua straordinaria Bildung. Si colloca in quest’ambito la triade simbolica corpo/freddo/sofferenza che attraversa il testo dalle pagine iniziali fino all’arrivo di Jane a Thornfield Hall, quando l’eroina, finalmente affermata nel suo ruolo di istitutrice, pare affrancarsene, ma solo per vederla riemergere in seguito alla delusione del rapporto con Rochester e alla scoperta dell’esistenza di Bertha Mason. Una prospettiva di questo tipo, incentrata com’è sull’esperienza esistenziale della protagonista e sulla tormentata definizione della soggettività femminile, potrebbe forse far correre al discorso critico un qualche rischio di psicologismo. È un rischio che Marroni previene grazie ad un close reading che non perde mai di vista la necessità di storicizzare il testo e di illuminarne la relazione con il contesto culturale in cui fu prodotto: una relazione dialettica e, anzi, apertamente conflittuale, che si traduce in opzioni stilistiche e strutturali coerentemente finalizzate ad una multiforme «manifestazione» di «antinomie» [p. 135] e contraddizioni che caratterizzano, non solo lo psichismo della protagonista, ma anche, e soprattutto, la cultura vittoriana nel suo complesso. In questo senso va anche intesa l’attenzione, mai fine a se stessa, dedicata alla biografia di Charlotte Brontë: l’atteggiamento di una scrittrice che non esita a «ribellarsi ai vincoli ingiusti imposti da una società ingiusta» [p. 96] si riflette nella «militanza byroniana» [p. 111] di un’eroina la cui esperienza si realizza costantemente come «intersezione di vettori contrari» [p. 134], dando luogo ad una dinamica, si potrebbe dire, più kierkegaardiana che hegeliana perché priva di ogni Aufhebung, perché in essa i momenti di apparente pacificazione, e gli stessi cedimenti alle aspettative dei lettori contemporanei, preparano in realtà un approfondimento e un inasprimento del conflitto.

L’affascinante lettura che Francesco Marroni propone del capolavoro di Charlotte Brontë – corredata da un ricco apparato di note e da una bibliografia puntuale e aggiornata – si propone in conclusione come valido testo di approfondimento per studenti e specialisti per la sua capacità di evidenziare in maniera criticamente innovativa e narrativamente avvincente gli elementi che fanno di Jane Eyre un grande classico nel senso in cui intendeva questo termine Italo Calvino: «un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire».